giovedì 23 dicembre 2010

Intervista a MAYBE I'M...



Musica Sotterranea incontra MAYBE I'M... , una delle novità più interessanti del panormana indipendente italiano. Il trio salernitano  ha da poco pubblicato il suo primo album ufficiale intitolato "We Must Stop You" e pubblicato da Jestrai Record.
Intervista a Ferdinando Farro, voce e chitarra della band.
(a cura di Stefano Grimaldi)


1)Ciao Nando. Come stai, innanzitutto?
Bene: i dati Istat dicono che l’economia è in ripresa e che gli italiani hanno fiducia nelle istituzioni, la mia città capoluogo è addobbata da fantastiche luci natalizie, la gente molto responsabilmente fa shopping per far girare l’economia e il sole splende sui lavori in corso sull’autostrada. Si può volere di più dalla vita? Mi viene da citare una vecchia barzelletta: l’unica cosa che non riesco a trovare è l’inchiostro blu.


2)Maybe I’m… è un progetto musicale nato nel 2007. Come lo presenteresti ai lettori?
Maybe i’m è nato come un progetto solista influenzato principalmente dal concetto di “roots”: fare musica come necessità, come legame col vissuto e parte integrante di esso. Fare musica non per costiparla in un disco, sperare nell’interesse di un’etichetta, fare un tour etc etc. Tutte cose che dovrebbero essere conseguenze mentre purtroppo stanno diventando il fine ultimo di chi fa musica oggi. Come solista ho registrato (con molto pressapochismo proprio perché non immaginavo di farla ascoltare aldilà della ristretta cerchia degli amici e conoscenti) una demo, “Satan’s holding a little room for me” che mandai per un ascolto anche agli amici della Recycled Music, una net label molto particolare, i quali inaspettatamente decisero di pubblicarlo. Da lì sono partite un po’ di recensioni e qualche concerto, nei quali ovviamente ho cercato di mettere in piedi una formazione live. Col tempo poi è entrato in pianta stabile nella formazione il batterista Antonio Marino, con il quale ho lavorato a “We must stop you”, e la violinista Clara Foglia, che è con noi invece da quest’estate. Ora come ora Maybe i’m è una band a tutti gli effetti.


3)Da qualche mese è uscito “We Must Stop You”, il vostro primo disco ufficiale, per la Jestrai Records, una delle maggiori etichette indipendenti italiane. Come sta andando il disco? Come vi sentite a far parte della famiglia Jestrai?
Il disco finora è stato accolto molto bene dalla stampa di settore e in questi giorni dovrebbe uscire anche un video, ma ovviamente il riscontro effettivo e che più ci interessa è quello che abbiamo ai concerti, e dalle date di presentazione fatte finora abbiamo ricevuto dei feedback molto positivi. Nella “famiglia Jestrai” ci sentiamo perfettamente a nostro agio, sono persone molto disponibili e sufficientemente pazze da credere ancora nel valore intrinseco della musica, e hanno un modo di trattare con le band molto diretto. Oltre alla Jestrai c’erano altre etichette interessate al disco con le quali abbiamo avuto dei contatti, ma spesso il rapporto che si crea è molto formale e ingessato, ti parlano del tuo disco come ti stessero parlando di un capo di abbigliamento, non gli interessa  sapere cosa c’è dentro, da dove quella musica viene e dove vorrebbe arrivare. Con Jestrai invece abbiamo avuto da subito un feeling positivo anche a livello umano.



4)Qual è il messaggio di “We Must Stop You”? Cosa ha influenzato principalmente la sua realizzazione?
Il messaggio di fondo in realtà é maturato man mano che lavoravamo al disco, così come le varie influenze musicali che ci puoi sentire. “We must stop you” è un po’ un anthem contro l’inerzia: ci stanno togliendo ogni possibilità di scelta riguardo al nostro futuro, stanno annullando totalmente le specificità culturali di ogni parte del globo in nome di una presunta “multiculturalità” che altro non è che un calderone di superficialità e luoghi comuni, stiamo marcendo in un benessere solo apparente che non fa altro che depauperare le risorse del pianeta in maniera così rapida che da qui a cinquant’anni non sappiamo se quest’ultimo sarà ancora in grado di “sopportarci”. E’ un quadro apocalittico delineato da ristrettissimi gruppi di lobbies economico-politiche, e di fronte ad esso tutto quello che sappiamo fare è intasare i social network (controllati dalle lobbies di cui sopra) di link e commenti e restare in casa a guardare programmi “sovversivi” (in onda su delle reti anche esse controllate, guarda un po’, dalle stesse lobbies). Se qualcuno prova a imbastire una forma di opposizione più concreta e non controllabile viene tacciato dai media di “terrorismo”, vedi il caso del MEND (Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger). Sarebbe ora che prendessimo realmente la situazione in mano e decidessimo una volta per tutte di arrestare una serie di processi che ci sembrano inevitabili solo perché ci sono sempre stati posti come tali.

5)Il vostro è un blues inquieto che sembra attingere a nomi quali Johnny Cash, Bob Dylan o ai più recenti Mark Lanegan o Tom Waits. Quanto di questi artisti ritenete abbia influenzato la vostra musica in generale?
Credo molto semplicemente che Bob Dylan abbia influenzato la musica di chiunque sia nato dopo di lui, mentre per quel che riguarda Cash penso sia stato uno degli artisti più autentici della storia, raro caso discografico in cui le canzoni erano tutt’uno con la persona. Prima di parlare di prigioni ci è finito dentro, tanto per dirne una. Tom Waits lo apprezziamo tantissimo tutti e tre, invece per quel che riguarda Lanegan ti confesso che nessuno di noi lo segue particolarmente. Aldilà comunque di questi riferimenti più facilmente riconoscibili posso dirti che le influenze musicali di “We must stop you” vanno cercate anche nell’afro-blues (uno dei nostri gruppi preferiti sono senza ombra di dubbio i Tinariwen), nella psichedelia e persino nella musica popolare del Sud Italia. Del resto dal bacino del Mediterraneo vengono buona parte delle radici musicali di quasi tutta la musica odierna e anche il blues non ha fatto altro che attraversare l’Oceano e arrivare in America. Citando Alì Farkà Tourè la prima volta che ascoltò  i bluesman americani: "loro hanno i rami ma io ho le radici".

6)Come nascono i vostri brani? Prima la musica e poi il testo o viceversa?
Non c’è un iter preciso, poi attualmente con il passaggio da solista a band è cambiato anche il metodo compositivo. Spesso comunque partiamo da riff o spunti improvvisati in sala prove per costruire un pezzo, altre volte porto qualcosa a cui magari ho lavorato a casa che ovviamente però, condivisa con altre persone, viene spesso trasfigurata totalmente. E del resto il bello di essere una band e non un solista sta proprio in questa pluralità di punti di vista. Per quel che riguarda i testi io non scrivo mai un testo per uno specifico pezzo. Annoto su un taccuino tutto ciò che mi viene in mente, anche in maniera molto embrionale, poi a seconda del pezzo vado a recuperare qualcosa o sviluppare un semplice spunto che avevo annotato.


7)Come vedete,oggi, la discografia italiana? Pensate sia ancora in crisi o notate  piccoli segnali di ripresa?
Domanda di rito a cui è impossibile sfuggire. In realtà non essendo discografici non sappiamo darti una risposta precisa. In primo luogo a tutti e tre interessa fare musica e non vendere dischi, è giusto che vi sia una ripartizione dei ruoli. Io ho sempre ammirato artisti che riescono ad essere  “manager di sé stessi” ma è una cosa in cui non riusciremmo mai, per una quasi totale mancanza di pragmatismo. Inoltre vivendo in una provincia del Sud, lontani dai grossi “centri” del mercato discografico non abbiamo una reale percezione del problema. Ed inoltre, permettimi di dire, abbiamo un bel po’ di problemi ben più gravi di cui occuparci, e quello della crisi del mercato discografico ci sembra piuttosto marginale. Qui da noi si fatica a trovare persino una sala prove e molti progetti interessanti vengono abortiti già in fase iniziale per questioni di carattere molto più spicciolo. E poi, se proprio dobbiamo dirla tutta, è una crisi generata dalla stessa industria del disco, che negli anni è andata avanti a testa bassa e con i paraocchi, senza indagare sulle richieste dei fruitori finali della musica, figurandosi come una casta elitaria che poteva fare il bello e il cattivo tempo avendo in pugno una massa enorme di gente inerme. Evidentemente non era proprio così…

8)Come vivete l’era del myspace e del download illegale?Pensate sia comunque di aiuto per le band emergenti?
Assolutamente si. Innanzitutto uno strumento come myspace ti permette di farti conoscere. I network di massa ormai sono totalmente in balia della major o di chi comunque può spendere grosse cifre per la promozione e anche i media cosidetti indipendenti spesso sono circoletti intellettuali in cui ci si spompina gratuitamente tra amici (posso dirlo si? ): quanto è fico il tuo disco…si ma mai quanto la tua webzine…etc etc. Di conseguenza in questo panorama così desolante uno strumento di autopromozione come myspace diventa di fondamentale importanza. Per quel che riguarda il download illegale non l’ho mai visto come una grossa piaga; io stesso scarico un bel po’ di dischi ma ovvio che quelli che mi piacciono davvero li compro (l’ultimo caso mi è capitato con “Love and death” di Ebo Taylor). Non credo che nessuno sopporti di avere il proprio disco preferito stipato in una cartella dei documenti di windows. Magari il download illegale danneggia molto quei gruppi che spesso vengono pompati all’inverosimile e spacciati come “fenomeni” ma che in realtà non lo sono: in questo caso uno si scarica il disco tutto preso dall’entusiasmo, lo ascolta e lo cestina.

9)Avete un disco preferito?
Non riuscirei mai a indicarti un disco preferito in assoluto, se vuoi posso dirti quello che secondo me è stato il miglior disco dell’anno che si sta per chiudere. Per quel che mi riguarda sono stato folgorato da “My father will guide me up a rope to the sky” degli Swan. Antonio invece ultimamente va avanti a dosi massicce di The Ex e Popul Vuh, mentre Clara venendo da studi classici adora Bach e Schubert.


10)Da qualche anno c’è il fenomeno de Il Teatro Degli Orrori, degli Zen Circus e di tante altre band. Son tornati in auge anche band storiche come Diaframma e Massimo Volume. Pensi si possa tornare a parlare di “scena rock italiana”?
Bisognerebbe fare distinzione tra il fatto che in giro vi siano buone band e che esista una scena. In una scena le band sono i nodi ma ci dovrebbe anche essere tutta una serie di relazioni che in Italia non esiste assolutamente: la cultura dello scambio date, dello scambio cd ai concerti, la condivisione di determinate idee da portare avanti in maniera coordinata. Insomma, senza tutte queste cose un insieme di band validissime non può comunque dirsi una scena. Io quando suono con altri gruppi ho l’abitudine di lasciargli sempre un nostro disco ma molto raramente mi capita che questo gesto sia ricambiato. Mentre con qualsiasi gruppo estero è quasi una cosa ovvia: addirittura i Mama Rosin, gruppo svizzero con il quale abbiamo suonato in occasione di un festival blues a Bari, ci lasciarono una copia in vinile del loro disco!

11)Qual è l’ultimo concerto che avete visto e che ricordate con più piacere?
Ne abbiamo visti un bel po’ ultimamente ma dovendo indicarti quelli che ci hanno colpito di più possiamo indicarti Solomon Burke (appena in tempo prima che ci lasciasse), TigerShitTigerTiger!, Wilco, Einsturzende Neubaten...questi sono i primi che ci vengono in mente su due piedi.

12)Domanda di rito. Se dovessi scegliere tre aggettivi per definire Maybe I’m…, quali sceglieresti?
“Maybe i’m” significa proprio il rifiuto di una classificazione quindi è una domanda difficile questa. Posso dirti tre aggettivi che ci rispecchiano al momento, che magari tra due giorni saranno già inappropriati. Dunque: ostinato, evocativo, poliritmico.





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